Neuromarketing: cos’è e quali sono le applicazioni

Le sfaccettature del marketing sono molteplici.

Tra queste troviamo il neuromarketing, cioè l’applicazione delle neuroscienze al marketing. È una disciplina sempre più utilizzata al giorno d’oggi, che ha lo scopo di analizzare i processi inconsapevoli che avvengono nella mente del consumatore, i quali influiscono sulle decisioni di acquisto o sul coinvolgimento emotivo nei confronti di un brand.

Ogni giorno ognuno di noi è esposto ad innumerevoli stimoli, online e offline, legati a spot pubblicitari o insegne. Questi input vengono trattenuti nella memoria e inconsapevolmente il nostro cervello innesca associazioni tra i diversi marchi, legandoli a determinati suonicolori ed emozioni.

Il neuromarketing non ha limiti e può essere applicato in qualsiasi ambito. Scopriamo insieme qualche esempio.

Il coinvolgimento del volto nel neuromarketing

Studi di neuromarketing e di eye-tracking affermano che il volto rappresenta il punto focale in cui si concentra l’attenzione delle persone. Questo aspetto, infatti, è tenuto bene a mente dai creatori di tantissime campagne pubblicitarie che scelgono come protagonisti proprio i visi umani.

Gli studi partono dall’anatomia più intrinseca. La neurologia ha scoperto che all’interno del nostro encefalo, più precisamente nella circonvoluzione temporale inferiore, esiste un’area detta area fusiforme facciale che è specializzata nel riconoscimento dei volti.

Altre analisi hanno poi stabilito quanto sia importante l’interpretazione delle emozioni derivanti dai volti altrui. Gli umani interpretano i volti degli altri in tempi molto rapidi senza nemmeno rendersene conto, come se fosse un movimento involontario.

Entrambe le analisi dimostrano quanto il nostro cervello abbia un legame straordinario, emotivo e soprattutto immediato con i visi delle altre persone.

Per questo motivo nei billboard, sui poster delle campagne elettorali, nei packaging, nei post dei social network appaiono spesso volti di persone. Quei visi sono capaci di creare una connessione profonda con chi riceve lo stimolo comunicazionale.

Cosa cattura il nostro sguardo?

L’eye-tracking, processo che monitora i movimenti oculari, viene spesso usato dalle big company e dagli studiosi di neuromarketing per capire in che direzione esatta si posa lo sguardo del soggetto in esame.

Da questo metodo di ricerca è emerso che se al soggetto esaminato viene mostrato un annuncio pubblicitario contenente un testo e l’immagine di una persona, l’attenzione di chi guarda l’annuncio si concentra maggiormente sul volto e sugli occhi della persona protagonista invece che sul testo. Per questa ragione, i soggetti degli annunci di solito guardano in una direzione dritta davanti a sé, proprio come se stessero guardando in faccia chi riceve l’impatto dell’annuncio.

Per far sì che ciò accada, è necessario selezionare accuratamente i volti in base al contesto in cui si sviluppa la campagna, così che gli stessi siano in accordo con i visi dei protagonisti. Ad esempio, per il nostro cervello identificare un viso sorridente può essere diverso in relazione al contesto in cui si trova; studi scientifici hanno dimostrato che è molto più immediato riconoscere un volto sorridente in una spiaggia piena di luce naturale che in un luogo scuro.

Infatti, in base al volto che ci viene mostrato, reagiamo diversamente. Questo dipende dal genere e dalla genetica a cui apparteniamo.  Sia uomini che donne, ad esempio, riconoscono più facilmente un’immagine che contiene il viso di un bambino: tale teoria si può ricondurre alla nostra naturale empatia e senso di protezione verso i più piccoli.

Le donne tendono a focalizzarsi e a ricordare meglio i volti femminili; al contrario gli uomini non fanno distinzioni di genere. Altri studi si sono concentrati sulle etnie, confermando che il nostro cervello riconosce più velocemente i volti della propria etnia.

Kinder: un esempio iconico di neuromarketing

La campagna che meglio spiega lo stretto legame tra i volti e il marketing è quella creata da Ferrero per uno dei suoi brand di riferimento. Il volto del bambino sui packaging di Kinder è infatti il più riconoscibile e famoso del mercato.

Quando Ferrero ha deciso di adottare questa strategia di marketing sicuramente conosceva la potenzialità e l’effetto che i volti dei bambini hanno sulle persone. Forse quello che il brand non si aspettava era che si creasse così tanto hype intorno all’identità del bambino.

Per diversi anni c’è stata una caccia al bambino, terminata con l’ipotesi che il protagonista delle barrette fosse un inglese. Dopo qualche tempo Ferrero ha confermato che si trattava, di un italiano, Matteo Farneti, oggi influencer e modello di successo che nella bio del suo profilo Instagram mostra con onore i suoi trascorsi come volto Kinder “Testimonial Kinder 2004-2019 🍫.

Matteo Farneti non è sempre stato il volto delle barrette: il bolognese ha infatti ha sostituito il suo predecessore, Günter Euringer, che è stato protagonista indiscusso del packaging delle barrette per ben trentadue anni. Il cambiamento da un volto all’altro, avvenuto tra il 2004 e il 2005, ha provocato non poche lamentele in rete. Sia in Italia che all’estero sono nati veri e propri movimenti di indignazione.

Questo spiega quanto i consumatori si fossero affezionate al viso di Günter. Dopo poco però, soprattutto grazie alla somiglianza tra i due bambini, le persone si sono abituate ed appassionate anche al volto di Matteo che rappresenta un’evoluzione di quello del suo predecessore. Il viso del modello italiano infatti è arrivato per dare un’immagine più giovane al brand: il suo sorriso spensierato, il colletto della polo appena visibile, i capelli più corti e sbarazzini sono simbolo di modernità e del mondo che sta cambiando.

Neanche Günter Euringer fu il primo bambino Kinder. È nel 1968 che nasce Kinder Cioccolato e con lui arriva anche il primo volto del packaging: un bambino dai capelli neri che regge cinque barrette nella sua mano sinistra. Dopo di lui ci sono stati altri protagonisti della confezione di barrette, ben tre prima di arrivare a Matteo Farneti.

Ancora oggi il coinvolgimento dei volti in contesti di comunicazione e marketing è altissimo: non si tratta più solo di modelli ma anche di veri e propri testimonial e influencer che vanno oltre il concetto di prestare il loro viso per una determinata campagna pubblicitaria, diventandone addirittura il cuore pulsante. Notiamo quindi che siamo partiti da un concetto scientifico – i visi sprigionano tutta una serie di reazioni ed emozioni – e siamo approdati non solo alla conferma del concetto stesso ma alla sua evoluzione, l’influencer marketing.

Il neuromarketing e la scelta del font

All’interno delle campagne pubblicitarie non sempre sono presenti volti o oggetti, ma anche semplici scritte che hanno l’obiettivo di comunicare un messaggio importante.

La decisione di non utilizzare soggetti e sostituirli con dei claim è spesso presa da molti brand, i quali hanno anche il compito di scegliere il font più adatto e in grado di trasmettere i valori e i messaggi della campagna.

Dunque, la scelta del font rimane una delle decisioni fondamentali per attrarre o mantenere l’attenzione di chi legge. Il carattere che viene scelto deve essere adeguato al tipo di messaggio che si vuole trasmettere, trasportando il lettore in un contesto emotivo specifico; per questo è importante considerare l’impatto psicologico e semiotico di ogni carattere tipografico.

Grazie alle scoperte delle neuroscienze e al neuromarketing, oggi è possibile avere qualche indicazione in più su come scegliere il font giusto per una comunicazione vincente.

Molti esperimenti hanno permesso di verificare il grado di influenza che hanno i diversi font sul comportamento d’acquisto. Ad esempio, uno studio sui font in corsivo ha potuto dimostrare che una semplice inclinazione delle lettere può aumentare a livello non conscio l’urgenza di reagire ad una determinata “call to action”. Un carattere “rotondo” è percepito come amichevole, mentre uno con linee dritte o angoli dimostra autorevolezza, quelli che riproducono la grafia trasmettono familiarità.

Le ricerche di psicologia cognitiva affermano che ai diversi font vengono attribuiti diversi significati psicologici. Si è così scoperto che il font Times New Roman aumenta la sensazione di ironia e divertimento di un testo comico, mentre l’Arial l’attenua. Altre ricerche hanno invece dimostrato una correlazione tra estetica del carattere e aumento del pensiero creativo dei lettori.

Le tipologie di font

Grazie alla creatività dei tipografi i font disponibili nel mondo continuano ad aumentare. Possiamo quindi affermare che ogni carattere, grazie al proprio impatto visivo e alla propria suggestione psicologica, può appartenere a una di queste cinque macro categorie principali:

·      Serif: “Caratteri con le grazie”, danno un tocco di eleganza, tradizione e classicità. Questi caratteri trasmettono senso di affidabilità e permettono di instaurare un rapporto di fiducia con il lettore. Le grazie rendono le lettere bilanciate e semplificano la lettura sulla carta. Nei siti web invece, si predilige l’uso di questa categoria solo nei titoli per evitare il rischio di creare confusione;

·      Sans Serif: “Caratteri senza grazie”, più moderni e innovativi. Questa categoria viene spesso utilizzata sul web per la sua efficacia nel trasmettere i messaggi in modo chiaro, senza creare confusione al lettore per via della loro linearità e assenza di fronzoli. Non a caso questi font sono prediletti dai colossi Apple e Windows;

·      Script o calligrafici: Caratteri che simulano la calligrafia a mano, dando l’idea di una scrittura sofisticata e sbarazzina. È importante ricordare che questa tipologia è sconsigliata nei testi lunghi poiché potrebbe risultare poco leggibile.

·      Display: Questa categoria possiede caratteri di stile vintage, ideali per suscitare nostalgia e permettere un tuffo nel passato;

·      Moderni: I caratteri più moderni vengono percepiti come trendy, alla moda e alle volte futuristici. L’utilizzo di questa categoria vuole trasmettere l’idea dell’essere al passo coi tempi.

Non conta quindi solo il contenuto, ma anche la presentazione grafica. Dunque, si può evincere che la percezione delle persone ad un messaggio è influenzata in modo evidente dal font con cui esso viene presentato. Proprio per questo motivo, l’applicazione delle neuroscienze alla tipografia rimane un campo di studi molto promettente.

Il neuromarketing e i colori

Il neuromarketing influisce anche su dettagli fondamentali all’interno dei contenuti, come nel caso dei colori.

La psicologia dei colori è efficace non solo in un negozio fisico, ma anche in un e-commerce, dove il colore dello sfondo della pagina e dei dettagli è rilevante per la psicologia del cliente. I colori del brand devono essere coerenti in tutti i prodotti dell’azienda, tenendo conto anche del packaging, della comunicazione dei post sui social media, i biglietti da visita e tutti i mezzi di comunicazione utilizzati.

La vista è uno dei sensi che usiamo maggiormente, quindi non c’è da stupirci se il colore è una delle caratteristiche che più cattura l’attenzione del consumatore. Pertanto, esso risulta connesso inscindibilmente al neuromarketing in quanto suggerisce sensazioni e associazioni.

Il verde, per esempio, è da sempre legato a tematiche green e richiama la natura e la salute. Ad esempio, Coca-Cola, quando ha lanciato la nuova bevanda a base di stevia e a basso contenuto di zuccheri ha abbandonato l’iconico rosso a favore di un packaging verde, colore che evoca i profumi delle erbe e fa percepire i prodotti come più salutari.

Colori più caldi come il rosso e l’arancione, invece, stimolano l’appetito ma allo stesso tempo richiamano la sensualità. Sono infatti solitamente impiegati per i packaging sia nell’ambito cosmetico che nel food and beverage.

Un ulteriore esempio riguarda il blu, generalmente associato a all’igiene e alla pulizia in quanto evoca una sensazione di freschezza, ma anche di relax. Esso, inoltre, è spesso utilizzato anche nell’ambito alimentare, specialmente nel campo ittico.

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