Quante volte vediamo pubblicizzate creme miracolose? O quante volte vengono sponsorizzati tè capaci di farci dimagrire senza neanche troppo sforzo?
Nonostante la pubblicità abbia anche un compito informativo, non sempre i brand se ne ricordano: è il caso della pubblicità ingannevole.
Le prime leggi sulla pubblicità ingannevole: un cambio di percezione
Che si parli della pubblicità ottocentesca o contemporanea, non si può dubitare di un fatto: la pubblicità ingannevole è sempre esistita. Da sempre marchi e aziende hanno cercato di sponsorizzare i loro prodotti attraverso delle promesse eccessive, alla ricerca del sensazionalismo.
Nonostante ciò, le leggi italiane contro questa strategia pubblicitaria sono alquanto recenti. I primi a rilasciare delle norme furono gli americani nel 1938. Per quanto riguarda la Comunità Europea le acque si iniziarono a smuovere nel 1984 con la direttiva 84/450/CEE, che definisce esclusivamente i principi generali da seguire nelle leggi specifiche create dai vari stati membri.
Si giunge così al non troppo lontano 1992, anno in cui vide la luce il decreto 74/92, secondo il quale la pubblicità ingannevole si definisce come:
“Qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta”.
Il 1992 è così l’anno della presa presa di coscienza. Infatti, la nascita delle specifiche leggi corrisponde alla comprensione di quanto sia potente il mezzo pubblicitario. In poche parole, ciò che è avvenuto è un cambio di prospettiva, che ha portato a osservare e affrontare un problema esistente da molti anni.
Secondo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (ACGM) sono necessarie delle leggi a tutela del consumatore, in quanto la pubblicità ha il dovere di informarlo, non semplicemente di sponsorizzare un determinato prodotto o servizio.
Mille e una pubblicità ingannevoli
Nel corso degli anni moltissimi marchi hanno distribuito pubblicità che sponsorizzavano prodotti miracolosi e offerte imperdibili, omettendo dei piccoli dettagli fondamentali per il cliente.
Tra i tanti brand che padroneggiano l’arte della pubblicità ingannevole vi sono quelli beauty, in particolare Nivea. Non pochi sono gli esempi offertici dall’azienda, ma di nostro interesse è il caso del 2008. Durante quell’anno l’Antitrust (ACGM) ha preso in esame uno spot della crema My Silhouette, che prometteva la riduzione del girovita di ben 3 cm. Fin troppo per gli esperti in ambito scientifico che hanno valutato la pubblicità in questione.
Ne è risultato una multa di ben 150.000 euro a danni del brand e la modifica della pubblicità in una versione molto meno sensazionalistica.
Non solo il campo della bellezza è affetto da questa strategia, ma anche quello automobilistico: ne è una pratica dimostrazione uno spot di Fiat realizzato nel 2012.
Quest’ultimo andava a promettere un blocco del carburante a 1 euro al litro per ben 3 anni, a seguito dell’acquisto di un’automobile dell’azienda torinese.
Peccato che nella pubblicità si omise che il carburante sarebbe stato consegnato in una quantità limitata, all’interno di una tessera. Questa consistente dimenticanza è costata a Fiat ben 200.000 euro.
Ultima ma non per importanza è la regina della pubblicità ingannevole: Poltronesofà. Da anni ormai la produttrice di divani è famosa per le sue innumerevoli offerte senza limite di tempo: ogni settimana si propone un nuovo fuori tutto, che scade domenica.
https://www.youtube.com/watch?v=IOcuHdC0o54&t=1s
Dunque non solo in ogni spot è presente un limite di tempo che rende urgente e imperdibile l’acquisto, ma tutti questi si sovrappongono, confondendo il consumatore.
Come sono molte le pubblicità ingannevoli diffuse dal brand, sono anche innumerevoli le multe che questo ha ricevuto dall’Antitrust, tra le più salate vi è quella del 2014 di ben 500.000 euro.
Nonostante le continue sanzioni da parte dell’ACGM, molti di questi marchi continuano imperterriti a creare spot di questo tipo. Una volta ricevuta la multa, infatti, l’azienda guadagna un’ampia visibilità. In tutti i casi, infatti, si è registrato un picco nelle ricerche su Google.
Che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli
Proprio questo è il motto che tutte queste campagne seguono: “Che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”. Come si è detto prima, è la multa che scatena il picco di visibilità, la quale porta il marchio al centro della ribalta, ma per quanto tempo?
Il tempo è il nemico di questa strategia: la fama che con questa si raccoglie è istantanea, si raggiunge così un picco destinato a crollare vertiginosamente e in un brevissimo lasso di tempo. Inoltre, se questa tattica viene reiterata nel tempo e in modo insistente, nell’acquirente si genera un senso di sfiducia crescente nei confronti dell’azienda. Non si potrà così più fidare di un marchio che non poche volte ha diffuso promozioni false o non del tutto corrispondenti alla realtà.
Quello a cui dovrebbe aspirare un brand è invece una fama costante nel tempo, data da una serie di iniziative volte a rafforzare il legame consumatore-brand, ovvero volte alla fidelizzazione.
Nel caso opposto il marchio otterrà certamente una popolarità anche pari al doppio, ma che si andrà a lacerare con il tempo e che soprattutto non deriva da un solido rapporto con il cliente. Il risultato è così deleterio per il brand, dimostrando come è ovviamente importante che se ne parli, ma è meglio che se ne parli bene e con costanza.