Il reverse marketing è quella tecnica di comunicazione che si basa sull’invertire le tradizionali strategie rivolte al consumatore finale.
Ma in che modo?
E se ti dicessi di NON leggere questo articolo?
Sicuramente la prima cosa che faresti sarebbe quella di leggerlo.
Reverse marketing: tutta questione di psicologia
In italiano viene definito come marketing inverso e si basa su quel meccanismo mentale per cui il divieto e la negazione spingono all’azione.
Solitamente ogni azienda cerca di spingere il cliente verso di sé per acquistare un prodotto, utilizzare dei servizi, o semplicemente per convertire.
Il reverse marketing, al contrario, facendo leva su dei messaggi precisi da veicolare, tende quasi a voler allontanare il pubblico.
Ma perché?
Per generare curiosità e voglia di saperne di più: in questo, in maniera totalmente spontanea, più l’utente finale si sentirà “rifiutato”, più cercherà di avvicinarsi all’azienda.
Una strategia che funziona: i punti di forza
Con il reverse marketing viene invertito il processo di convincimento all’azione caro al marketing tradizionale per il quale io, brand, cerco di presentarti al meglio il mio prodotto, così da convincerti ad acquistarlo.
Questa tecnica si basa sulle fondamenta della psicologia inversa.
Assumere un atteggiamento “di blocco”, limitante, contro il proprio brand, cattura l’attenzione e incuriosisce chi riceve il messaggio a saperne di più, ad indagarne i motivi.
La comunicazione inversa permette alle persone di avvicinarsi in maniera spontanea al prodotto, senza passare dal processo di “convincimento attraverso gli incentivi” che solitamente viene adottato.
L’intento resta comunque quello di vendere, cambia soltanto il processo per il quale si arriva all’obiettivo.
Il principio della reattanza
La psicologia inversa viene intesa come meccanismo psicologico per il quale si induce qualcuno a fare qualcosa, senza chiederglielo esplicitamente, ma anzi vietandogliela.
In questo senso, il divieto di compiere un’azione fa scattare nell’altro un senso di attrazione, che lo spinge ad agire.
Il principio utilizzato è quello della reattanza e cioè la tendenza umana ad agire in modo opposto a quello richiesto.
Attuare queste strategie nel mondo del marketing può rivelarsi efficiente, perché influenza il modo in cui i clienti scelgono.
Un esempio può essere il periodo del Black Friday o del Cyber Monday.
Durante queste giornate di sconti e promozioni, infatti, alcuni brand puntano sul principio della scarsità, inducendo l’acquirente a voler a tutti i costi aggiudicarsi quel determinato prodotto prima di tutti.
In questi casi, la reattanza psicologica, agisce nel momento in cui scatta l’esclusività: la difficoltà percepita nell’ottenere un certo prodotto, ne aumenta il valore agli occhi dei consumatori e li rende così più propensi all’acquisto.
Quando il reverse marketing funziona
Il reverse marketing, con tutte le sue tecniche e strategie di psicologia inversa, riscuote molto successo nel mondo del beauty.
È il trend del #productregret.
Su diverse piattaforme social, in particolare Tik Tok, ultimamente vari beauty influencer hanno pubblicato video insoliti: anzichè recensire i migliori prodotti utilizzati, hanno optato per descrivere sì le caratteristiche top dell’articolo, ma con toni ironici e provocatori.
L’obiettivo è quello di presentare le caratteristiche vincenti, ma con una vena ironica e polemica. In questo caso, l’uso di un linguaggio negativo, ha creato interesse nel consumatore, più propenso a testare il prodotto.
Vediamo alcuni esempi di reverse marketing che hanno riscosso successo.
ClioMakeUp si pente dei suoi prodotti
Lo scorso ottobre, la famosa e accreditata beauty influencer ClioMakeUp ha condiviso un video all’apparenza autocritico, in cui menziona i prodotti che “si pente di aver creato”.
Per tutta la durata del video, Clio sembra proprio lamentarsi dei suoi best seller, ma in realtà sta solo utilizzando le migliori strategie di psicologia inversa per valorizzarli.
“Ogni volta che li metto, sembra quasi che abbia dormito per 10 ore, che abbia la pelle di una ventenne. Non va bene.” – dice Clio nel suo video.
È così che con tono polemico esalta le caratteristiche vincenti dei suoi prodotti.
A riprova del fatto che la tecnica sia vincente, il contenuto ha ottenuto 2,6 milioni di visualizzazioni.
Patagonia non vuole che si compri la sua giacca
L’azienda specializzata in prodotti outdoor, Patagonia, si inserisce nell’elenco di brand che hanno utilizzato a proprio vantaggio il reverse marketing.
Nel 2011, infatti, ha lanciato la campagna “Don’t buy this jacket”, che invitava i clienti a non acquistare i propri prodotti.
Risultato? La giacca in questione ha visto le vendite crescere del +30%.
Dicendo di NON comprare, Patagonia ha sfruttato la resistenza psicologica a suo favore.
Don’t eat Takis
In maniera simile Takis, il marchio famoso per le sue patatine piccanti nel 2018, per promuovere le sue tortillas in Canada, ha convinto i consumatori dicendo loro di non mangiarle.
La pubblicità, infatti, recitava “Don’t eat Takis”.
Heather Crees, il SVP Marketing di Takis ha detto in un’intervista:
In un contesto in cui tutti si contendono l’attenzione dei consumatori, dovevamo creare un messaggio che fosse forte e di impatto, e che portasse le persone a chiedersi: “Cosa sono i Takis?”.
La campagna si è rivelata un successo: un aumento delle vendite del +244%.
Anche Volkswagen ha sposato il reverse marketing
Nel 1966 la casa automobilistica Volkswagen ha deciso di lanciare una pubblicità con la star dell’NBA Wilt Chamberlain.
Il messaggio? Il cestista, data la sua altezza, non era in grado di entrare in macchina.
Il brand però, in questo caso, ha sfruttato il limite a proprio vantaggio rivolgendosi al suo consumatore medio per dirgli che anche se l’auto è piccola, chiunque rientri nel 1,80m di altezza può godere a pieno di tutto il comfort della vettura.
Quindi sì al reverse marketing
Come abbiamo visto, non mancano esempi per i quali l’anti-marketing si sia rivelata una strategia vincente.
Il tutto, infatti, non si basa sulla classica promozione di un prodotto o servizio, ma gioca con la mente del consumatore creando un desiderio, imposto da un divieto.
In definitiva “Non pensare ad un elefante”, come il principio elaborato dal linguista statunitense George Lakoff.
Come spiega il professore, nel momento in cui il destinatario riceve questo messaggio, cioè di non pensare a un elefante, si troverà a disobbedire in maniera involontaria.
È impossibile non raffigurarsi quel preciso animale nel momento in cui viene evocato dalle parole, anche se queste contengono l’esplicito invito a non farlo.
Allo stesso modo agisce il reverse marketing.
E se sei arrivato fin qui, vuol dire che anche con noi ha funzionato!