Le iniziative create a sostegno di cause sociali da parte dei brand sono sempre più frequenti e si concentrano in giornate specifiche cariche di forte significato. Una di queste, ad esempio, è senza dubbio l’8 marzo: la giornata dedicata alle donne. In questa occasione si parla più che mai di pinkwashing, adottato da molte aziende e spesso al centro di accese polemiche.
In che modo le aziende manifestano la loro adesione? Accade spesso tramite edizioni limitate, confezioni e loghi che si tingono di rosa e che cambiano aspetto da un giorno all’altro. In questo modo i brand provano a mettersi in mostra senza provare un reale interesse. Riconoscere le aziende che prestano particolare attenzione a questa tematica con serietà non è semplice.
Cos’è il pinkwashing
Pinkwashing deriva dalla crasi tra pink (rosa) e whitewashing (imbiancare, nascondere). É un termine utilizzato per azioni apparentemente solidali attuate dalle aziende nei confronti delle donne e dei temi di cui si fanno portavoce. Questo termine può essere tradoto con “nascondere con il rosa“. E non sarebbe inappropiato se pensiamo al fatto che molti brand ricoprono di rosa i propri prodotti per mostrarsi solidali e attenti dimenticandosi, però, di essere parte del problema che si dichiara di voler affrontare. I brand utilizzano questa occasione per attirare l’attenzione su di sé e guadagnare l’approvazione del pubblico, mostrandosi attenti a cause sociali che sono, oggi più che mai, attuali e importanti.
La definizione venne usata per la prima volta negli anni 2000 dalla Breast Cancer Action nell’ambito del progetto Think Before You Pink a sostegno delle imprese nella lotta contro il cancro al seno, per soli scopi economici.
In quegli anni, infatti, le aziende che utilizzavano il fiocco rosa – poi simbolo della battaglia – sui propri prodotti erano numerose.
Tutto nacque nel 1991. Una donna americana di nome Charlotte Haley iniziò a cucire nel suo salotto dei piccoli fiocchi color pesca a cui allegava una cartolina di denuncia. La Haley si scagliava contro i pochi fondi destinati dal governo alla lotta contro il cancro al seno, di cui lei stessa era stata vittima. Haley iniziò a distribuire i fiocchi nei negozi della sua città e, grazie al passaparola, la notizia della sua iniziativa si diffuse rapidamente. Fu contattata dalla casa cosmetica Estée Lauder e dalla rivista Self, interessate ad acquistare i suoi fiocchi. Charlotte si rifiutò. Tuttavia, i potenziali investitori non si scoraggiarono: cambiarono il colore del fiocco nel rosa che oggi noi tutti associamo alla lotta contro il cancro al seno e lo utilizzarono sui propri prodotti.
Non solo pinkwashing
Da questo termine ne sono nati molti altri che vogliono evidenziare l’abuso di temi sociali molto importanti. Rainbow washing è utilizzato, ad esempio, in riferimento alla comunità LGBTQ+ richiamando i colori dell’arcobaleno della bandiera rappresentativa della comunità.
Analogamente anche il greenwashing nasconde in realtà obiettivi molto meno nobili: infatti, in quest’occasione i brand si tingono di verde proclamando azioni volte al benessere dell’ambiente e della sostenibilità.
A tutto ciò si aggiunge anche il concetto di purplewashing, chiamato anche violetwashing, termine utilizzato come denuncia dei collettivi femministi per nominare le strategie politiche e aziendali che tentano di strumentalizzare le lotte femministe. Infatti, spesso, le campagne di marketing simulano empatia e sostegno nei confronti della lotta delle donne con immagini, video e testi che richiamano questi temi, ma spesso le aziende finiscono per autocelebrarsi senza dare la giusta importanza alle tematiche di cui si fanno portavoce.
L’evoluzione del pinkwashing
Ad oggi, il pinkwashing indica tutte le iniziative portate avanti dai brand a favore di cause sociali relative al mondo femminile esclusivamente per ottenere un ritorno economico e d’immagine.
Il pinkwashing è, dunque, una tecnica molto proficua per le imprese, che fanno leva sul sentimento di inclusività dei consumatori per vendere i propri prodotti. La strategia si dimostra un fenomeno trasversale a tutti i settori: dai brand di cosmesi ai produttori di cibo, da quelli di gioielli a quelli di abbigliamento sportivo, cavalcando l’onda rosa a proprio vantaggio.
Voci controcorrente
Contemporaneamente, sono emerse voci fuori dal coro che si dissociano da questa mercificazione di temi così importanti come l’inclusione o la parità dei sessi. In particolare, i social network fungono da cassa di risonanza per chi cerca di contrastare questo fenomeno.
Il documentario di denuncia Pink Ribbons, Inc. mira a far luce sulla pratica del pinkwashing e a denunciare l’operato delle aziende. All’interno troviamo anche la testimonianza di Charlotte Haley, colei che suo malgrado diede il via alla pink ribbon culture, la cultura del fiocco rosa.
Vantaggi e svantaggi del pinkwashing
Farsi portavoce di alcune battaglie sociali può essere vantaggioso dal punto di vista:
- Economico: i prodotti pink vendono perché ritenuti etici;
- Reputazionale: le aziende si mostrano aperte e inclusive e per questo la loro reputazione migliora;
- Numerico: con queste iniziative i brand si rivolgono ad uno specifico target, sensibile ai temi supportati. Queste persone sceglieranno i brand che si dimostrano impegnati socialmente, andando ad accrescere il numero dei clienti.
Tuttavia, dietro ad alcune strategie di marketing si celano zone d’ombra e contraddittorietà.
Un esempio? Il noto marchio svedese Dior, mise in commercio delle t-shirt la cui stampa recitava “We Should All Be Feminists” (trad. “Tutti dovremmo essere femministi”). Un’ottima iniziativa, penserai. Dov’è allora l’inganno? Quelle stesse magliette erano state realizzate all’interno di laboratori tessili dislocati in Asia, in cui le dipendenti lavoravano in condizioni di sfruttamento per una paga vergognosamente misera.
Rendere i propri prodotti più accattivanti agli occhi del cliente “politicamente impegnato” va fatto con cognizione di causa e con seria partecipazione. Questo semplice esempio ci dimostra come sfruttare tematiche care all’opinione pubblica può portare ad una perdita totale di credibilità. Queste iniziative si possono ritorcere contro il brand e il rischio maggiore è quello del boicottaggio da parte dei consumatori, critici nei confronti dell’operato dell’impresa. Nonostante i vantaggi, il pinkwashing andrebbe evitato non solo perché moralmente sbagliato, ma anche perché strategicamente controproducente.
Il caso KFC
Uno degli esempi più noti in merito al pinkwashing è senza dubbio quello della famosa catena fast food KFC che nel 2010 annunciò una partnership con Komen, un’importante associazione che si occupa di lotta contro il cancro al seno. Per l’occasione gli iconici secchielli del brand si tinsero di rosa e, al termine della campagna, vennero raccolti ben 4 milioni di dollari da devolvere all’associazione. Un risultato notevole, vero? Tuttavia, i soldi erano stati già devoluti dall’azienda prima della campagna. Tutto il ricavato della vendita dei secchielli rosa andò, quindi, semplicemente ad accrescere le casse di KFC. I soldi erano realmente stati donati ma lo sarebbero stati a prescindere: l’iniziativa era stata solo un modo per ottenere visibilità e consensi.
Dunque, il pinkwashing mostra una falsa realtà e, perchè no, un femminismo di facciata. Il tutto è mosso da un chiaro ritorno economico, senza che vi sia però un reale impegno per le tematiche in oggetto. Il risultato è un’evidente malafede delle iniziative proposte oltre che ad una nociva non trasparenza aziendale.
Come difendersi dal pinkwashing?
Oggi, viviamo in un mondo che vuole mostrarsi inclusivo nei confronti delle minoranze, open-minded e sensibile, motivo per cui sui brand viene esercitata una forte pressione da parte dell’opinione pubblica. I brand si trovano quasi costretti a mostrarsi a favore di determinate cause per raccogliere i consensi, mentendo ai potenziali clienti. Questo naturalmente non giustifica un impegno di facciata: il punto di partenza può essere determinato dall’esterno, ma l’azienda deve concretamente portare avanti l’impegno di cui si è fatta carico.
Prima di promuovere iniziative incentrate su tematiche sociali particolarmente sentite, le aziende dovrebbero capire se i propri valori, le azioni che praticano nel quotidiano, la propria mission, siano effettivamente coerenti con il messaggio che vogliono trasmettere.
Cosa è importante tenere in considerazione?
- Produzione: nei Paesi in cui l’azienda produce vi è un reale rispetto per i diritti delle donne?
- Gender pay gap: all’interno dell’azienda gli stipendi sono effettivamente allineati tra uomini e donne?
- Influencers/Brand ambassadors: chi rappresenta il brand ha preso mai una posizione riguardo il femminismo? È in linea con ciò che sta comunicando il brand?
Questi semplici elementi possono permettere all’azienda di portare avanti strategie di marketing funzionali e credibile e permettono al consumatore di effettuare acquisti consapevoli senza cadere nella trappola del pinkwashing.
Le aziende hanno un ruolo importante nell’educazione dei propri consumatori e, attraverso le proprie campagne, possono contribuire alla sensibilizzazione del pubblico. Il pinkwashing non va necessariamente demonizzato. Pur partendo da presupposti sbagliati, quindi, può avere un risvolto positivo se proposto da un’azienda che realmente crede in questa battaglia e si impegna concretamente.